NICK AND THE CITY, NEW YORK

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NICK AND THE CITY  NEW YORKNICK AND THE CITY

“uno sguardo alle città con gli occhi di un uomo di campagna nato in una cittadina di mare. Indirizzi, per lo più golosi, da gustare con gli occhi e la bocca, per una guida insolita ai lati più goderecci delle città”

La mia New York

Con New York ci casco e ci ricasco. Come con si fa con gli amanti dai quali non si riesce a staccarsi negli anni, nonostante le tentazioni siano tante e frequenti.

Tra me e la Grande Mela c’è stato il classico colpo di fulmine. Ci sono andato la prima volta nel 1997, prima tappa del viaggio di nozze di un matrimonio che non è durato abbastanza per poter dire altro.

NICK AND THE CITYScelsi il Waldorf Astoria perché lo avevo visto ne “Il Principe cerca moglie” e non ne rimasi deluso. Ma più che il lusso della sistemazione, rimasi colpito dall’energia della città, dal linguaggio contrastato di ogni angolo in altezza come in larghezza, dal caos delle avenue e dalla serenità di Washington Square. Chiusa la valigia l’ultimo giorno prima di ripartire, la frase fu tanto provocatoria quanto presagistica: “io qui entro un anno ci torno a vivere. Con te o senza di te”.

Non passò esattamente un anno, ma nemmeno due e NY era mia: me la sono goduta per due anni, col pretesto dell’Università, lavorando come visual per Max Mara di giorno e scrivendo per Panorama di notte. Di studiare non ce n’era bisogno. Bastava ascoltare attentamente in aula. Aula della New York University in quella Washington Square che trovi all’inizio della V Avenue ma per chi arriva da nord come capitò a me, sembra la fine e l’inizio di un altro mondo, che poi ho scoperto chiamarsi downtown.

Fine della premessa, veniamo al sodo. Perché da lì in avanti, o meglio, da quando sono tornato (chissà come mai) a vivere in Italia, per me New York resta una tappa fissa: se non ci torno almeno ogni sei-sette mesi, mi prende il magone; mi sembra di tradire me stesso.

Di solito ci torno nelle mezze stagioni, che qui esistono ancora. Mi piace tra fine settembre e i primi di novembre quando la Indian Summer riscalda le giornate autunnali e il fogliaggio per le strade regala dei colori pazzeschi, oppure tra maggio e giugno.

Gelida ma calda e accogliente NICK AND THE CITY

A sto giro, approfittando di un’apparente tregua lavorativa, ho scelto la settimana di gennaio più gelida e rigida che potessi immaginare. E per me che tendenzialmente odio il freddo, odio vestirmi a strati, adoro tanto comprarmi sciarpe e cappelli, quanto detesto averne bisogno, è stata una prova di forza alla quale solo New York poteva sottopormi. Ed    ha vinto ancora lei. il suo calore ha sciolto gli iceberg che sentivo nelle scarpe anche con due paia di calze. Ecco perché ho deciso di inaugurare questa rubrica, parlando della città che amo di più al mondo.

Essendo un posto che amo ritrovare quasi più di quanto ami scoprire, ho i miei riferimenti, quelli che non tradirei mai, quelli che solo dopo esserci stato almeno una volta lasciano spazio a nuove scoperte, che comunque non deludono mai.

L’hamburger più buono

La tappa numero uno, quella che mi fa sentire subito a casa è Jg Melon: è nel cuore dell’Upper East Side, la zona dove ho sempre scelto di stare. E’ l’area residenziale più classica e conservatrice, supera le mode, sembra sempre aspettarti al ritorno, immutata. Come lo è questo angolo della 74esima strada con la terza avenue.

L’hamburger è il più buono di Manhattan. Sfacciatamente, oserei dire d’America. Si paga solo cash, la simpatia del vecchietto alla porta è paragonabile a quella di un herpes genitale, e non accetta prenotazioni. Eppure, tutto si perdona in nome di un menu americano classico fatto di chili soup come antipasto in una tazzina da caffé con ceddar sbriciolato e crostini, del loro bacon-cheese burger o della chopped steak cottura medio-sangue accompagnata da un cetriolo e dalle patate fritte tagliate tonde alla campagnola. La gentilezza del vecchio stronzo va in crescendo quando ti alzi e te ne vai, sembra più felice e grato se mangi velocemente e lasci il posto ad altri frequentatori altrettanto abituali e con altrettanti soldi i contanti. Per me che detesto indugiare a tavola e amo mangiare in tempi relativamente brevi, è tutto perfetto.

NICK AND THE CITYSeconda tappa golosa è il Lukes Lobster, sempre in zona. Il piatto forte lì è il lobster roll: un panino da hot dog con dentro aragosta e maionese, mangi al banco di legno, molto spartano, ma mangi da Dio e non spendi più di 15$. L’atmosfera è easy, i ragazzi simpatici e cordiali, la materia prima eccellente.

Non solo fast food

Altro indirizzo fisso è per me il Philip-Marie, da tutt’altra parte. Siamo ora nel cuore del Greenviwch Village, in Hudson Street: lì lo chef John Greco ha fatto quello che nessuno, oppure pochissimi, ha osato fare a New York, ossia creare un menu di cucina tipica regionale americana. Per chi pensa che mangiare americano significa solo fast food, una bella scoperta. Cosa scelgo? Pomodori verdi fritti (come nel film visto 2498537495835 volte) e chicken pot pie, ovvero una torta calda che racchiude dentro una sorta di zuppa di pollo e verdure da perdere la testa. Non cambio mai, da 15 anni a questa parte. Mi piace andarci a pranzo o per un brunch, mangiando fuori e godendo del giardino in vaso di piante aromatiche che porta un po’ di campagna in centro città.

Clonazione 3dNICK AND THE CITY

Poco più a nord sempre in zona ovest, c’è la mia tappa preferita per il pranzo o la merenda, ossia il Chelsea Market, un mercato coperto di ogni delizia, dove nell’enorme pescheria che vende ogni specie marina immaginabile, c’è anche un’area ristoro, che ogni anno diventa sempre più grande, dove si mangia dal sushi alle ostriche, dall’aragosta del maine al pesce fritto. Tutto stupendo, tutto freschissimo, tutto veloce, tutto poco caro. Adoro. Dentro al Chelsea Market c’è anche un angolo dove quest’anno mi sono regalato un mini-me: una sorta di cabina stile doccia solare tappezzata in ogni cm da macchine fotografiche ti fa la scansione 3d e dopo due settimane la versione in miniatura arriva diretta a casa. Nel mio prossimo presepe, ci sarò anche io in total look blue a tre strati. Quel giorno faceva un freddo cane e secondo me si capisce.

Il trendy che non guasta

Una volta in zona merita vedere come si è evoluto il vicinato: quando vivevo lì era roba da intenditori, o da mignotte o da Le-mete-del-cinema-Sex-and-the-Citydelinquenti. Diane Von Furstemberg, che da sempre ci vede lungo, già ci aveva messo piede mettendo lì il suo quartier generale, poi è arrivato Sex and The City, poi Jeffrey, Stella Mc Cartney, Scoop, e le quotazioni dell’ex quartiere delle macellerie è diventato super trendy. Mi fermo sempre a fare un aperitivo al “the Standard High Lane”. Dite alla Chiara Ferragni che io ci andavo quando lei ancora si faceva i selfie nella doccia.

Nuovi indirizzi, vecchie abitudini e inconsolabili chiusure

La zona sud ultimamente è quella che merita di più per uscire la sera a sperimentare nuove idee: la bowery, si è riempita di ristorantini deliziosi e con grande atmosfera, il lower east side che ho scoperto per caso dopo una passeggiata al tramonto a Brooklyn (dove sono stato solo due volte) è tutto da scoprire, e soho, che un tempo era il quartier generale di artisti e galleristi, con le facciate in ghisa colorate, merita comunque di essere visto. Lì i miei indirizzi sono tre: balthazar, che è aperto dalla colazione alla cena e dove io vado a cena, café gitane, perfetto per un brunch un tè pomeridiano un po’ hypster, con i toast all’avocado e il té alle spezie, e Little Prince, dove amo tutto: l’arredo un po‘ francese un po‘ New York vecchia maniera, l’hamburger sormontato da una riduzione di french onion soup e il menu dei dolci. A sto giro l’ho trovato chiuso, perché ci sono andato di lunedì, ma spero non abbia cessato l’attività perché non me ne farei una ragione, come invece è successo quando ha chiuso Sapporo east dove mi portarono poco prima del capodanno del duemila miei amici Frank e Jeff per il primo sushi della mia vita: era il mio hot spot giapponese.NICK AND THE CITY Niente a che vedere con Nobu, parlo di una bettola mediamente zozzetta, dove i giapponesi locali andavano a mangiare brodaglie. Per me nessuna garanzia potrebbe parlare più chiaro. Il sushi era perfetto, il chicken katsu (ovvero pollo fritto alla maniera loro) il più buono del pianeta, e il sashimi freschissimo. Inconsolabile, non saprei indirizzarvi altrove, ma ho voluto rendere omaggio a questo sancta sanctorum per l’ultima volta.

Shopping bag da una tonnellata e ritorno.

Lo shopping: per me che compro per la casa e per la tavola una tappa obbligata è Fishes Eddie, sulla broadway: ci sono piatti di ogni forma e colore, utensili di ogni tipo per ogni cosa e di ogni formato. Ci ho comprato i piatti quadrati con le planimetrie delle case di Manhattan di fine ottocento. Vivo a Milano in meno di 70 metri ma ho comprato un servizio da 24. L’operazione ha richiesto l’acquisto di un bagaglio supplementare. Cosa che capita ogni volta: parto leggero, torno strapieno. E con un kg in più, non solo nei bagagli ma anche sulla bilancia.

NICK AND THE CITY, NEW YORK di Nicola Santini

 

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